Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Pino Levi Cavaglione e il giorno da leoni

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«Marco [Moscati] è ritornato da Roma. I suoi sono sfuggiti alla razzia. Le notizie che egli porta sono raccapriccianti. I tedeschi hanno agito con meticolosa ferocia. Bambini lattanti, donne incinte, vecchi paralizzati non hanno trovato pietà. Venivano caricati sui camion gremiti altri infelici, con selvaggia furia».

È quanto scrive nel suo diario il 20 ottobre 1943 il comandante delle bande partigiane dei Castelli Romani, Pino Levi (il cognome Cavaglione lo aggiungerà nel dopoguerra, in omaggio alla madre Emma, deportata e morta ad Auschwitz).

La biografia di questo incredibile personaggio, nato a Genova nel 1911, figlio di Aronne (Nino) Levi, è stata ricostruita per la prima volta nel libro «Il Ponte Sette Luci» (Metauro) di Lidia Maggioli e Antonio Mazzoni, presentato alla Casa della Memoria il 5 dicembre scorso.

Pino, all’epoca giovane avvocato, era un giovane fuori dal comune, che amava la letteratura, la storia, la fotografia, la musica lirica, il pugilato e leggeva in francese e inglese.

Antifascista della prima ora, nel 1937 fu iscritto nel casellario politico centrale del Ministero dell’Interno, diventando uno dei 160mila sovversivi italiani.

Quello stesso anno raggiunse Carlo Rosselli e gli amici di GL  a Parigi per arruolarsi nelle brigate internazionali in Spagna; proposito dal quale dovette recedere per l’intervento del  padre Aronne, che andò a prenderlo in Francia e lo riportò a casa.

Arrestato dal regime fascista il 10 maggio 1938, iniziò il suo lungo girovagare per il centro-sud della penisola, al confino prima per antifascismo e poi, dopo l’entrata in guerra, quale «ebreo antifascista».

Liberato dal governo Badoglio, Pino dopo l’8 settembre sfuggì all’arresto dei nazifascisti a Genova e si recò a Roma, dove fu assegnato alle bande dei Castelli Romani.

Dopo appena quaranta giorni ne diventò il comandante militare, su nomina del Cln. Il 16  novembre i genitori, che si nascondevano a Genova col falso nome di coniugi Parodi, vennero catturati dai nazisti. Il 6 dicembre  furono deportati ad Auschwitz, da dove purtroppo non fecero ritorno.

Il titolo del libro (Il Ponte Sette Luci) prende lo spunto dall’azione militare più clamorosa realizzata dalla Resistenza romana. Nella notte di pioggia tra il 20 e il 21 dicembre la banda dei Castelli Romani, con la collaborazione del Fronte Militare Clandestino, portò a termine un’azione spettacolare dal punto di vista bellico.

Vennero fatti saltare in aria, quasi nello stesso momento, un convoglio carico di esplosivi sulla Roma-Cassino, nei pressi di Labico, e il ponte Sette Luci della ferrovia Roma-Formia, a circa 25 km da Roma, mentre vi transitava un treno carico di militari tedeschi, provocando circa 400 tra morti e feriti. Gli ordigni per gli attentati e le informazioni sui treni erano stati forniti da Giuseppe Montezemolo.

La paternità dell’azione, per prudenza, fu avvolta da segreto: il Cln non ne diede notizia sulla stampa clandestina e i tedeschi, persuasi che i partigiani italiani non erano così efficienti da compiere azioni di belliche di tale portata, la attribuirono ai paracadutisti inglesi.

Pino Levi Cavaglione nel suo diario così scrisse: «No, dannati tedeschi, questa volta il colpo non vi è venuto dal cielo, non vi è venuto dagli aviatori inglesi. Vi è venuto da noi! Da noi che in questo momento ci sentiamo orgogliosi di essere italiani e partigiani e non cambieremmo i nostri laceri abiti bagnati e fangosi per nessuna uniforme. E vi odiamo, vi odiamo a morte».

Trasferito a Zagarolo e a Palestrina, l’intrepido avvocato conobbe Aldo Finzi, sottosegretario agli interni di Mussolini ai tempi del delitto Matteotti, che collaborò con lui e con la Resistenza. Finzi il 24 marzo 1944 verrà ucciso alle Fosse Ardeatine, assieme a Marco Moscati, catturato a Roma, dove si era recato per recuperare un carico di armi.

Dopo la liberazione, Pino Levi Cavaglione diventò funzionario dell’Alto Commissariato per l’epurazione di Genova. Nel 1946 sposò Margherita Garello, con la quale ebbe due figli: Marco (come l’amico del cuore Moscati) e Maura. Avvocato, militò nel Pci, fino all’invasione delle truppe sovietiche in Ungheria nel 1956, che lo indussero a lasciare il partito e ad iscriversi al Psi.

Nel 1945 uscì la prima edizione del suo diario, «Guerriglia nei Castelli romani», ristampato due volte. Lo recensirà anche Cesare Pavese, con le seguenti parole: «le sue scene hanno davvero l’incredibile verità di un documento fotografico». Il film «Un giorno da leoni» di Nanni Loy s’ispirerà proprio all’azione del Ponte Sette Luci e alle pagine di Pino, mirabile esempio di un racconto della Resistenza senza l’aurea del mito.

Anche la sua avventurosa vita, come quella di Primo Levi, si concluderà prima del tempo, per sua stessa mano, il 27 febbraio 1971.

 

Mario Avagliano

 

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