Fede e libero pensiero in Francesco Saverio Salfi

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«A Francois Salfi Napolitain - ses derniers voeux ont étè - pour la libertè de sa patrie»

Francesco Saverio Salfi, filosofo, educatore, letterato, matematico, uomo libero e patriota passò, in una dimensione altra, il 2 settembre 1832. La lapide che proteggeva le sue spoglie, nel cimitero di Père Lachaise a Parigi, recava la scritta che apre questa memoria dedicata a lui e ai tanti che concepirono un pensiero, un sogno alto di rinnovamento sociale sorgente dal riconoscimento dei diritti umani e dall’ansia di libertà.

Esule, con tanti altri che non dismettevano l’aspirazione ad un’Italia libera, una e repubblicana, faceva parte di un comitato le cui intelligenze operavano per l’insurrezione e il conseguimento della loro visione politica.

Nello stesso comitato operava il suo antico compagno di lotta, Filippo Buonarroti, con cui era in rapporti già dal 1796.

Ne fa fede una lettera scritta il 3 maggio di quell’anno, inviata «aux citoyens  Celentani, Selvaggi, Buonarroti et à tous les amis de la libertè francaise et italienne» testimone della profonda delusione che l’armistizio di Cherasco aveva generato negli animi dei molti fuorusciti che avevano riposto in Napoleone le speranze di realizzazione del loro disegno libertario.

 

Nelle vesti di presidente della Giunta liberatrice, Salfi fu il primo firmatario del “Proclama al popolo italiano dalle Alpi all’Etna” del 1831, vero e proprio inno alla unità ed alla repubblica. Ne cito alcuni brani esemplari: «non può esistere libertà senza indipendenza, né indipendenza senza forza, né forza senza unità. Adopriamoci dunque affinché l’Italia sia al più presto indipendente, una e libera..» 

L’appello conclusivo: «…cadano i tiranni, s’infrangano le corone e sulle ruine loro sorga la repubblica italiana una e indivisibile dalle Alpi al mare»esplode con la medesima urgenza appassionata che ritroviamo negli accenti delle sue tragedie o col fervore di spirito libero che costituisce la trama dei suoi scritti giornalistici e dei suoi lavori antropologici e sociali. Opere pervase dallo slancio di un ideale tutto giocato sulla realizzazione del progresso del genere umano mediante l’educazione degli individui e le giuste legislazioni.

Dieci anni prima, nel 1821, dall’esilio parigino aveva dato alle stampe il volume L’Italie au dixneuvième siècle, ou de la nécessité d’accorder, en Italie, le pouvoir avec la liberté.[1]

Al di là dell’importanza che questo scritto ricopre per la innovativa proposta rispetto ad una costituzione federativa degli Stati dell’Italia geografica sul modello della federazione germanica, c’è da porre l’accento sul fatto che esso si pone quale intuizione o, meglio, meditata anticipazione di ciò che, in tempi successivi, sarà il fondamento del pensiero di Gioberti.

Nel suo ottimo saggio: Dal Muratori al Cesarotti, tomo IV,Ernesto Bigi accredita al progetto salfiano il valore di mezzo eccellente per conferir certezza alla penisola italica di una fondata, effettiva forma di libertà.[2]

La realizzazione di una fattiva libertà costituzionale può essere fondata solo sull’indipendenza politica «…de’ Principi e de’ loro Stati e dell’Italia intera…» sostiene Salfi, che individua nello strumento della confederazione di tutti i Principi la soluzione più adeguata «…Non vi è altro mezzo di dare a questa nazione un carattere d’insieme, d’unità e di vita politica…»egli scrive spingendosi anche oltre nella sua visione. 

La sua riflessione sull’assetto politico d’Italia si proietta in una dimensione europea anticipando temi e problemi che saranno oggetto di successive valutazioni e sviluppi teorici. L’opera si conclude ribadendo ancora, con forza, il disegno morale primo e più urgente dell’autore: la felicità dei popoli.

Essa può essere perseguita avendo il possesso della libertà che è autonomia di pensiero, virtù capace di assumere decisioni legislative utili al miglioramento del bene dei popoli.

Nella legge sull’abolizione dei diritti feudali, emanata sulle ultime battute dello splendido sogno della Repubblica Partenopea, recante anche la firma di Francesco Saverio Salfi, è ribadito che «…niun cittadino può essere astretto a far quello che la Legge non prescrive».

E, qualche mese prima, nelle Istruzioni generali del Governo provvisorio, di cui Salfi fu membro eccellente, è chiarito che «…la libertà consiste in ciò, che ogni cittadino possa fare ciò che non gli è vietato dalla legge, e che non nuoccia ad altro.»

Inseguì per tutta la vita due grandi sogni: la realizzazione dell’Italia libera da oppressioni, una e repubblicana, e la libertà di pensiero che conferisce all’uomo la potenza delle scelte. Da ottenersi in virtù dell’efficacia delle azioni e dell’empatia con l’altro nel principio inalienabile dell’uguaglianza dei diritti.

«Risorga - scrive in un suo articolo per il periodico milanese - il termometro politico della Lombardia […]  la forza fisica, morale e politica ch’essa ha da più secoli infelicemente perduta».

E, ancora, in un appello del maggio 1797 pubblicato sul Giornale de’ patrioti d’Italia: «Oh patria, o nome che un cittadino non proferisce senza emozione, ma che non ha alcun significato sui labbri de’ popoli incurvati sotto il giogo de’ tiranni […] dentro la vostra fortunata penisola non esistono altre divisioni che quelle che vi hanno seminato la tirannia straniera da una parte e la superstizione papale dall’altra…»

Una lunga vita, quella di Franco Salfi, come volle farsi chiamare dopo la fuoruscita dall’Italia, forse per dare maggior forza alla valenza di uomo libero che lo connotava.

Una vita alimentata dal fuoco di una fede condivisa con gli intelletti di tanti, italiani e stranieri, che ripulirono, col turbine delle idealità illuministe, raziocinanti e progressive, i cieli dall’oscurità delle nebbie dei fanatismi e dei despotismi

Una vita che prende le mosse attingendo alla sorgente di menti vivaci ed entusiaste, di giovani intellettuali cosentini allievi di Genovesi i quali, tornati a Cosenza, trasferiscono il brivido delle nuove idealità nel cenacolo eccellente dell’Accademia de’ Pescatori Cratilidi, nelle menti e nei cuori di giovani come il Salfi.

L’intera Calabria nutre nel suo seno giovani innamorati dell’idea di libertà intellettuale che fa assaporare in pieno il senso di partecipazione alla costruzione di una società affrancata da oscurantismi e terrori irrazionali, governata da leggi che tutelino, come è detto nel preambolo della legge del Governo provvisorio sull’abolizione dei diritti feudali:” … la sicurezza che hanno gli individui di godere de’ loro diritti e di tutti gli altri beni”.

Molti di costoro daranno vita alla Repubblica Partenopea del ‘99.

Esperienza prima sul territorio italiano dello spirito illuminista e giacobino, maturata nei cuori e vagheggiata negli intelletti di uomini educati alla lezione culturale e morale di valorosi Maestri.

Un’esperienza che, pur esaurita nell’arco di cinque mesi, varrà come cuneo destinato a svellere un sistema di potere clericale e civile e come fondamento solido per gettare i muri portanti per la formazione di una nazione unita e consapevole dei suoi diritti civili ed umani.

Nell’accostarci alle vite, al pensiero fatto sovente prassi, agli scritti di figure eccellenti che elaborarono e coltivarono un ideale di costruzione sociale pregno di spirito di concreta libertà, ci si è soffermati molto a riflettere su un aspetto che, riteniamo, si possa osservare con rispettosa attenzione per meglio comprendere le sorgenti di forza cui attinsero tanti protagonisti di quel momento storico.

La capacità, cioè, di mantenere costante e solida una catena spirituale di aspirazioni e intenti, capace di non intaccare mai la realizzazione di un progetto comune benché molti cadessero falciati dalla violenza delle reazioni del potere di cui contrastavano l’egoismo e l’ottusità.

Un veloce sguardo su alcuni scorci della società come si configura, in particolare nel regno di Napoli, a cavallo tra la seconda metà del ‘700 e i primi decenni dell’800, ci servirà per meglio entrare nel carattere e nel pensiero di Francesco Saverio Salfi e coglierne al meglio l’essenza.

Ci soffermeremo perciò un poco ad osservare gli eventi che disegnano la scena in cui si muovono uomini e idee gettando un particolare fascio di luce sulla sua prima patria: il regno di Napoli o delle due Sicilie che dir si voglia.   

Inizieremo citando brani contenuti in una lettera scritta, sul finire del ‘700, da Johann Gottfried Herder, allievo prediletto di Kant ed amico di Goethe.

«La libertà di pensiero – afferma il filosofo – illumina e predilige il popolo di Napoli più che altro luogo d’Italia” che continua affermando che nei diversi luoghi di questo grande regno: “si erano prodotte opere eccellenti sulla filosofia dell’umanità e sull’economia dei popoli».

Già cento anni prima di Herder, il francese padre Germain, in visita a Napoli nel 1685, notava, in una lettera, riportata nel saggio di Mabillon-Montfaucon,  Correspondance inédite avec l’Italie, che gli spiriti più belli del regno di Napoli erano i più accurati ed attenti ricercatori delle opere di Cartesio che studiavano per comprenderne appieno il pensiero.

Sono state citate affermazioni di due uomini distanti nel tempo e diversi per nazionalità e sentimenti, al fine di dare l’avvio all’esame di una problematica e dei molteplici aspetti che sostanziarono pensiero ed azione politica di intellettuali, come il Salfi, cui va imputato il merito di aver segnato una rottura con il passato.

Un passato fatto di rassegnazione e di cieca obbedienza da superarsi in forza di un atteggiamento della mente che assuma l’affermarsi della ragione come criterio di giudizio e di orientamento in tutti i campi della vita dell’uomo.

Solamente a queste condizioni sarà possibile consentire ai molti di approdare ad una società civile libera da qualsiasi tirannia, cosciente dei suoi diritti, da acquisire e difendere per il tramite della retta amministrazione della giustizia e dell’educazione, della pratica delle scienze e della responsabile cura dei territori.

Gregorio Mattei, calabrese, martire sui patiboli del ’99, affermò:

«I giacobini di Napoli furono i primi che dettero il grido all’Italia sonnacchiosa. Quando altri appena ardiva pensare, quando pareva ancora dubbia la sorte della Francia medesima essi, giovani, inesperti, privi di mezzi ma pieni d’entusiasmo per la libertà, d’odio per la tirannia, tentarono un’impresa difficile, vasta, perigliosa, che, se non fosse andata a vuoto, gli avrebbe resi immortali e felice l’Italia».[3]

Quegli uomini, fra cui annoveriamo l’abate Francesco Saverio Salfi, erano figli di una cultura assimilata attraverso la pratica quotidiana con il pensiero di filosofi, che, dovunque in Europa, da Erasmo in avanti, attraverso Galilei e Gassendi, Campanella e Cartesio, Telesio e Locke, Shaftesbury e Diderot, Montesquieu ed Helvetius, avevano posto le pietre miliari dello spirito laico.

E perciò del libero esercizio del pensiero capace di affermare, quando ne esistano le cause, il dissenso religioso e sociale, capace, altresì, di innescare il dibattito sulla tolleranza, di generare le feconde utopie che innescano le riforme della società, la rifondazione del sapere, l’organizzazione della ricerca, l’affermarsi del giusnaturalismo e dell’autonomia della morale e del diritto.

Si connotavano, in sintesi, per una cultura che Benedetto Croce, definisce «… accordo di mente e d’ animo, circolo vivo di pensiero e di volontà, e religione: non quella religione dell’ “antico errore”, l’errore della trascendenza, né quel torbido sentimentalismo mistico, che ora si procura rinnovare nella melensa religioneria dei giorni nostri con le sue vanitose esibizioni di falso fervore (contro cui non lascerò mai fuggir occasione di manifestare disprezzo e disgusto, e che quasi mi fa oggi aborrire lo stesso sacro nome di “religione”)- ma la religione come unità dello spirito umano, e sanità e vigoria di tutte le sue forze. E di questa religione Napoli assai allora difettava, nonostante le sue chiese, i suoi monasteri, le sue pratiche di penitenza, che mostravano la loro inanità nelle loro incapacità a diventare principio di rinnovamento civile, e in quello stesso piegarsi e accomodarsi alle condizioni presenti, e puntellarle e mantenerle immote. Una nuova religione civile non poteva formarsi se non con un nuovo moto di pensiero, segno e strumento insieme di un elevamento degli animi.»[4]

La cultura del reame napoletano in età illuminista è quella che metabolizza le esperienze di pensiero internazionali ma che, nel medesimo tempo, produce intelletti potentissimi nel cui codice genetico è andata maturandosi l’eredità di giganti della speculazione come Giordano Bruno, Campanella e Telesio, di matematici e medici come Leonardo di Capua e  Tommaso Cornelio, allievo quest’ultimo di quel Marco Aurelio Severino, seguace di Tommaso Campanella, sodale di Torricelli e meritevole di aver introdotto a Napoli le opere di Cartesio, Hobbes e Gassendi, di giureconsulti come Francesco D’Andrea,  Gaetano Argento e l’Aulisio, e letterati come il Valletta fondatore della cattedra di greco.

I repubblicani napoletani erano il portato della vigorosa tradizione anticurialista che prendeva le mosse, fin dal medioevo, da Pier delle Vigne, alla corte di Federico II di Svevia, per arrivare alla visione laica e giusnaturalistica di Pietro Giannone, ispiratore di uomini come Intieri e Genovesi, a loro volta fonti nobilissime e limpide di un sistema di pensiero illuminato che avrebbe guidato i moti dell’anima, la produzione culturale e di azione politica di figure come Pagano, Cirillo, Pasquale Baffi, Caracciolo e  Filangieri, e Salfi e Spiriti e, ancora, Domenico Bisceglia e Raffaelli, Pimentel Fonseca e Poerio e Logoteta.

Innumerevoli spiriti colti, nobili e borghesi, che diedero vita alla rivoluzione del ‘99 e, in gran parte, sacrificarono la loro esistenza sul patibolo in nome dei diritti umani e della libertà.   

La Istoria civile del Regno di Napoli dello scomunicato Giannone, data alla luce nel 1723, contiene, infatti, un importante punto di forza; la tesi fondamentale che gli intellettuali riformatori come Salfi fecero propria: la dimostrazione storica delle usurpazioni del clero e del papato ai danni del potere civile del regno di Napoli.

Che era già stata fatta propria dal fiorentino Bernardo Tanucci, meritevolissimo ministro prima di quel Carlo di Borbone, Signore di Napoli e futuro Carlo III di Spagna, e poi di suo figlio Ferdinando IV.

Al Tanucci, cattolico osservante, ma lucido ed onesto amministratore, va ascritto il merito di aver promosso e adottato una serie di iniziative politiche, non ultima l’espulsione dei gesuiti dal regno, (1767), tese ad arginare lo strapotere e le numerose immunità del clero fra cui le pressanti e continue richieste di esenzione dalle tasse.

Vale ricordare il giudizio formulato dallo storico Venturi che, a tale riguardo, definì la politica del Tanucci un “giannonismo senza Giannone”.

Per comprendere la straordinaria qualità ed il successo ovunque, anche fuori della penisola, riscosso dall’opera di Pietro Giannone, basti citare la segnalazione del suo valore fatta dall’abate Lodovico Muratori insieme ad altri estimatori come Costantino Grimaldi: «Taglia a tonno qualunque genere di persone e preciso gli ecclesiastici» mentre il Muratori confermava: «Di libri siffatti non se ne vede in Italia. Doveva egli prevedere tutto quello che gli è poi avvenuto. Ma questa povera verità, oh quanto è mal veduta da molti!»

Libri di una tale profondità erano rari anche all’estero. Gli inglesi se ne accaparrarono immediatamente un gran numero di copie nell’edizione originale (cosa che aumentò le ire dell’inquisizione). Dalla Francia Voltaire ne parlerà in modo entusiastico e Montesquieu scriverà lamentando che ci sarebbe voluto anche per la Francia un’opera come quella «une histoire civile du royaume de France comme Giannone a fait l’Histoire civile du royaume de Naples».  

A Padova gli offriranno la cattedra di giurisprudenza, ma l’inquisizione aveva compreso che «per purgare l’umanità da un seme che potrebbe un dì germogliare in una universale infezione, sarebbe stata cosa utilissima prenderlo e processarlo.»

D’altronde il Settembrini, nel commentare, nelle sue Lezioni di storia della letteratura italiana, la scomunica e le successive persecuzioni di cui Pietro Giannone fu fatto oggetto, senza che queste avessero nessuna motivazione di ordine teologico, scriveva: «Se negavi Dio il prete alzava le spalle e diceva che Dio ti avrebbe punito; se negavi il potere temporale, ti chiamava ateo, non ti perdonava mai e se poteva ti bruciava vivo.»

I giuristi napoletani erano, per la gran parte, a detta di Metastasio, un’ardente falange antivaticana, e più che consapevoli del fatto che il loro collega difendeva i diritti civili contro i soprusi del clero che possedeva i due terzi delle terre del regno e godeva di una infinità di privilegi inalienabili che legavano le mani allo Stato e lo immiserivano con le loro ingerenze e le continue usurpazioni.

La lezione del Giannone costituì una semente privilegiata da spargere nelle menti di uomini della tempra morale e intellettuale di un Genovesi.

In una delle sue lettere dirette ad un giovane signore che abitava in provincia egli scrive:

«Stimo che i giovani letterati ed amanti della loro patria, niuna cosa debbano tralasciare per animare la Stimo gente bassa all’agricoltura e alle arti. Potrebbero in molte maniere ciò fare, prima con istudiare esattamente queste cose e comunicare i più utili precetti agl’ignoranti; secondo, con far anch’essi delle osservazioni per migliorare le derrate, l’agricoltura, le arti; terzo, con tradurre qualche utile libro o comporne essi dei brevi e facili; quarto con procurare che la gente bassa sapesse leggere e scrivere ed un poco d’abbaco, cosa che potrebbe recare infinita utilità a tutti i mestieri.»

In un’altra delle sue lettere si riferisce al suo maestro l’Intieri, che sembra incarnare le aspirazioni e le visioni Illuministiche, definendolo: «l’amico del genere umano, anima bella e grande, ed esemplare di tutti coloro che non sono dimentichi di essere della famiglia degli uomini»la cui azione non è mai immemore della necessità di operare per dare corpo e sostanza al «nome della pubblica felicità.»

Sull’onda di questi moti dell’intelletto e dell’anima la lezione di Genovesi giunge in Calabria, contrastando le pesantezze retoriche di una pedante cultura pregna di retoriche, soffocata dai dogmatismi di impronta scolastica in uso nelle scuole gesuitiche.

Trova un ambiente favorevole, come dicevamo all’inizio di questa comunicazione, nel cenacolo vivace dell’Accademia dei Pescatori Cratilidi fondata a Cosenza nel 1756.

Diventa ossigeno di libero pensiero, arma ben temprata da rinnovata fede, scevra da superstizioni e paure, da esaltazioni emotive incontrollate e fanatismi, tessuta da trame di virtù attiva e rispetto per il genere umano.

Arma di una battaglia morale attraverso la guida di intelletti versati nella pratica della filosofia, delle scienze, dell’economia, del valore di Pietro Clausi, Domenico Cordopatri, Domenico Antonio Gully, capaci di cambiare ordinamenti, strutture, mentalità.

In alcuni versi di sapore foscoliano, proprio il Salfi ripercorre con la memoria l’ambiente culturale di impronta clericale che paralizzava certi contesti formativi della sua città prima della ventata portata dai nuovi maestri.

 

Veggio le scuole, ove illuser la incauta

mia gioventù di volgo ignaro, i detti

e il rigor d’un pedante, o di un rabbioso

filosofo l’orgoglio e la follia;

e parmi che il frastuon dentro ancor vi oda

di quelle voci, dal destin dannate

a stordir sempre, ad instruir mai.

  

Nei territori della Napoli illuminista, gli intellettuali respirano la vivacità culturale del caustico e brillante Ferdinando Galiani che si inserisce anche nel dibattito sul nuovo corso delle teorie economiche con il trattato Della moneta, pubblicato nel 1750, nel quale muove critiche severe al sistema mercantilistico. Si imbevono delle ragioni più specifiche dell’Illuminismo seguendo le lezioni di scienze economiche e leggendo i lavori del Genovesi, educatore e maestro, cui grazie all’Intieri, nel 1754, fu assegnata la prima cattedra europea di economia politica.

Si entusiasmano alla lettura dell’opera del giovane Gaetano Filangieri, attivissimo seguace ed emulo di Montesquieu, la monumentale Scienza della Legislazione, ove si afferma risolutamente la necessità di una profonda riforma degli Stati, alla quale debbono cooperare leggi eque e un’educazione adeguata.

Condividono il pensiero di Francesco Mario Pagano che, nei suoi Saggi politici, tenta di conciliare storia umana e natura, dichiarandole regolate dalle medesime leggi.

Riscaldano i loro moti di fede e religiosità alla luce di parole, come queste che vi riporto, scritte dal Genovesi nelle Lettere familiari «Se la virtù è amare il prossimo, adoro l’Evangelo, la cui sostanza non è altro che amore. Quanto è dolce questa parola amore! E quanto ne sarebbe la nostra vita felice se non regnasse che egli solo.»

Si fanno promotori del cambiamento che, come scrive Domenico Grimaldi nel suo Saggio di economia campestre per la Calabria Ultra del 1770, per essere realizzato «abbisogna di una generale fermentazione, di uno spirito di attività, d’emulazione, di gloria e d’interesse, che, con fervorosa celerità animasse tutta la nazione, e le mettesse in un aspetto, che le occupazioni principali per essa fossero l’agricoltura e l’industria, e che in queste scienze, principalmente riconoscesse il suo vero interesse e la sorgente inesausta d’ogni bene e ricchezza».

Grimaldi conclude il suo saggio affidandolo,  pur nella impietosa denuncia delle cause dei mali sociali,  alle ali della speranza e del desiderio: «Io,  per me,  desidererei che, colla pubblicazione di questo libro, la passione della gloria e dell’utile ragionevole si rissentisse un poco più nell’animo di que’ baroni, di que’ vescovi, di que’ monaci e frati che occupano quasi l’intiera provincia;  perciocché in quanto a’ particolari che colà abitano, sono così inerti, così timidi, così schiavi de’ loro pregiudizi che, se, per vincere la miseria, dovessero dare un solo passo fuori dell’ordinario, io sono sicuro che nol farebbero mai.»

Ecco delineato lo scacchiere su cui si muoveranno le menti, le aspirazioni, i sogni di individui che riscaldano la propria essenza al calor bianco del libero pensiero che non nega la fede, anzi le fedi.

La fede in un artefice divino potentissimo ed intelligentissimo, come affermava Voltaire, la fede nella pratica della tolleranza religiosa come sosteneva il protestante Bayle - che trova il suo fondamento nell’obbligo di ciascuno di seguire unicamente il giudizio della propria coscienza,  la fede in un progresso generato dalla ragione, che dà ordine e disciplina al mondo e  la fede nell’esercizio del dubbio e dell’ironia, come affermavano Shaftesbury e gli enciclopedisti, e ancora, la fede nell’educazione dei popoli, unica forza capace di svellere le antiche catene di schiavitù intellettuale e di miseria del corpo e dell’anima nella splendida visione del giovane Filangieri o della pasionaria Eleonora de Fonseca Pimentel.

Soffermiamoci un attimo su questa straordinaria donna, membro del governo rivoluzionario, autrice dell’Inno alla libertà cantato nelle strade e nelle contrade del regno e fondatrice il 14 piovoso (2 febbraio) di un grande giornale politico economico “Il Monitore Napoletano” dalle cui colonne conduce una lotta per rendere consapevole e partecipe il popolo ancora schiavo della miseria dovuta all’immobilismo secolare, dell’ignoranza e della soggezione che da essa si genera.[5]

Eleonora si rende perfettamente conto che al popolo affamato non bastano né le lodi, né i gradi di colonnello. Propone una radicale riforma agraria, uno scorporo ante litteram, la distribuzione delle terre ai poveri che, solo così, concretamente, si renderanno conto del significato del vocabolo repubblica che per loro resta, sempre e solo, una parola senza agganci concreti con il loro mondo e con le loro speranze.

«Una gran linea di demarcazione disgiunge noi dal rimanente del popolo – scrive in un editoriale - perché non si ha con esso un linguaggio comune. Se bene si rimonti alla cagione dei nostri ultimi mali, si vedranno essi derivati particolarmente da questa separazione e tuttavia la plebe diffida dei patrioti perché non li intende.»

Ecco l’ideale dell’educazione, forse solo lasciata allo stato di teoria, che bisognava perseguire con prassi tempestive modulate secondo un disegno che non ebbe applicazione immediata e non poteva d’altronde averlo considerati i tempi brevi di vita della repubblica partenopea soffocata dalla ottusità delle masse sanfediste tanto ben manovrate dal Ruffo e da Maria Carolina d’Austria, fomentatrice ostinata, anche contro il parere dello stesso cardinale Ruffo, dei patiboli della vendetta.

Tale forma di fede, appena descritta, usata come generatrice di morte e distruttrice dei fondamenti della dignità umana, è quella rinnegata e contrastata dalle idealità illuministe e giacobine.

Codesto modo di intendere religione e fede è respinto con forza da ciascuno spirito che, allora come oggi, ispira il proprio essere al libero pensiero. 

Ma, fatte le necessarie, anche se troppo generiche, premesse utili ad inquadrare il contesto, soffermiamoci, sull’onda degli eventi storici, ad osservare, attraverso la visitazione di alcune delle opere del Salfi, gli aspetti relativi al tema centrale di questo scritto.

Tutte le idee citate nel corso di questa visitazione, l’abbattimento delle superstizioni generatrici del sonno della ragione, la dimensione dell’educazione utile a rinnovare ed agire per il miglioramento della società, il perseguimento dei diritti e della libertà attraverso la pratica della tolleranza, la lotta contro ogni forma di dispotismo e di teocrazia, sono patrimonio che Salfi trasfonde nella visione politica e sociale  non solo attraverso la partecipazione diretta agli eventi che segnano la storia, oltre che napoletana, anche del resto d’Italia e di Francia.

La sua produzione letteraria, giornalistica e politica è vastissima. Il teatro drammatico, pregno di alfieriana passione, è veicolo educativo ai valori altissimi di libertà e di idealità patriottiche.

I pamphlets ed i saggi sono concepiti come provocazione atta a svellere sedimentati strumenti di gestione e controllo delle menti più fragili, proprio perché ignoranti e succubi del potere clericale o civile, uso a far leva su irragionevoli terrori e superstizioni, a scatenare passioni ed istinti di masse inneggianti alla loro stessa schiavitù.  

Il primo periodo vissuto a Napoli serve a Salfi per intrecciare, sorreggere e rafforzare la sua visione morale e sociale nel sodalizio con nobilissimi spiriti che avevano trovato, nei valori libertari esaltanti la dignità umana, il lievito per costituirsi come centri elaboratori di un pensiero progressista, umanitario, razionalista, atto a rigettare ogni forma di assolutismo e trasformare la società mediante un impegno concreto per restituire a ciascun essere umano i suoi diritti naturali.

Sembra opportuno citare uno scritto salfiano, che appare esemplare, non solo per il fatto che contiene molteplici spunti presenti in tanta parte dei suoi lavori e del suo pensiero, ma anche perché rende perfettamente espliciti la sua concezione di fede e di libero pensiero. 

Si tratta di un pamphlet pubblicato dal nostro in occasione dell’abolizione della ormai secolare usanza di omaggio al papa, della chinea. Adottata dal 1263, ai tempi di Carlo d’Angiò fortemente sostenuto dal papa Urbano IV.

Costui promosse ogni azione politica e bellica per fargli acquisire il trono di Sicilia e di Napoli in danno dell’infelice Manfredi di Hohenstaufen e del povero Corradino, vittima di una sorte maligna, e in cambio di un versamento annuale di tremila o diecimila once d’oro nel caso avesse voluto il dominio della sola Sicilia o anche di Napoli.   

Regnante papa Pio VI, l’anno 1776, proprio per l’azione politica del Tanucci, venne abolito l’antico uso della Chinea.[6]

Ogni anno l’antico vassallaggio nei confronti del papato di Roma si rinnovava con l’invio a Roma di un magnifico cavallo bianco di una razza allevata nel territorio di Bisignano dall’andatura elegante ed armoniosa. Il cavallo, riccamente bardato, recava il censo di 7000 ducati d’oro di Camera.

Il re Ferdinando IV, quell’anno, si limitò ad inviare privatamente al papa la somma sorvolando sulla pompa della cerimonia solenne.

Il gesto, per l’implicita serie di valenze politiche e diplomatiche, non poteva sortire altro effetto che un rigetto ed una serie di proteste che, dopo il ritiro del Tanucci, indussero Ferdinando a ritornare sui suoi passi riconfermando l’atto di vassallaggio che continuò fino al 1788, quando in occasione della festività di San Pietro e Paolo, destinata alla reiterazione dell’omaggio, il re si limitò ad inviare il solo censo. Pio VI protestò con una solenne allocuzione pronunciata il 28 giugno.

Questo evento fornì il destro a Francesco Saverio Salfi per la pubblicazione di un pamphlet contenente l’allocuzione di un cardinale al papa, ovvero il discorso sulla chinea pretesa da Roma e la conseguente risposta del papa all’allocuzione del cardinale N.N..

Ovviamente il cardinale misterioso e provocatore non è altri che il Salfi stesso il quale coglie l’occasione per affermare la posizione, sua per prima, ma anche di tutti coloro che rigettavano le pretese di un despotismo, che, con una “negoziazione infelice”, offendeva un sovrano ed il suo popolo.

Il cardinale misterioso ripercorre gli eventi, le trame, le artate menzogne, le “investiture”, il controllo psicologico di monarchi e di popoli attraverso i falsi e le appropriazioni che la chiesa di Cristo ha gestito nei secoli per promuovere e mantenere un potere temporale ben lontano dal messaggio evangelico ed ormai alle sue ultime battute.

Ricorda al papa i violenti ostracismi esercitati ostinatamente verso qualsiasi forma di filosofia o di scienza che potessero contrastare ignoranza e superstizione in forza delle quali è stato agevole sostenere quel potere.

«No, non sono più quei tempi, S.S. Padre - fa dire al Cardinale N.N.- in cui l’ignoranza, la superstizione, le guerre civili, le rapine e cose simili, congiuravano opportunamente a fondare, ampliare e perpetuare la vostra formidabile onnipotenza; - e più avanti, continua - … sono riconosciute le carte apocrife foggiate in quei secoli per noi fortunati dal cortigiano curialista e dal divoto falsario: e che, perduto il loro incantesimo, ora giacciono, peso inutile, nel Vaticano, e monumento ignominioso per la Corte di Roma. Sono riconosciute le investiture per le quali abbiamo voluto far credere di aver tante volte donato quello che non possedevamo, né potevamo giammai possedere [...] investiture che altro non erano che semplici e ghiribizzose cerimonie introdotte dalla pietà, dall’imbecillità tollerate e dalla scaltrezza nostra trafficate e sostenute.»

Non si tratta solo della cerimonia della chinea. L’accusa è rivolta a strategie politiche che Roma ha posto in essere andando ottusamente contro lo spirito dei tempi ricavandone, peraltro, solo sconfortanti fallimenti.

Il Salfi, nel corso dell’allocuzione, ha già fatto riferimento alla serie di smacchi che Pio VI aveva già subìto negli scontri avvenuti con l’imperatore d’Austria.

Riassumiamo in breve.

Dal 1780 il giuseppinismo aveva trionfato andando ben oltre le prime riforme che erano state attuate ancora durante il regno di Maria Teresa.

L’imperatore sottopose la pubblicazione dei decreti del papa e dei vescovi al suo placet e fece assumere da parte dello Stato l’amministrazione della Chiesa sopprimendo conventi e seminari.

Pio VI protestò, ma il ministro di Giuseppe, il Kaunitz, rispose che le disposizioni imperiali non intaccavano i dogmi di fede, erano solo affari interni allo Stato e accusò il papa di gratuita ingerenza.

Analoga politica adottò il fratello di Giuseppe, Pietro Leopoldo II, granduca di Toscana, spingendosi addirittura a vagheggiare una Chiesa nazionale. Si estendeva a macchia d’olio un dispregio dei diritti della Chiesa di Roma che sembrava profilare anche un abbattimento del suo stesso primato nel mondo cattolico.

Il viaggio, cui Salfi fa riferimento nel corso dell’allocuzione, è quello che Pio VI intraprese alla volta di Vienna nel 1782, sperando di correre ai ripari.

Fu accolto con grandi onori ma se ne tornò a Roma senza avere ottenuto nulla. Fu una vera Canossa a rovescio, come gli rinfacciò Pasquino facendogli trovare sull’inginocchiatoio uno dei suoi feroci commenti: «Ciò che Gregorio VII, il più grande dei pontefici aveva stabilito, Pio VI, l’ultimo dei preti, l’ha distrutto.»

Il Belli ricorda, con l’ironia di sempre, l’evento in un sonetto:

 

Vorze annà a Vienna a gastigà la boria

D’un re che camminava troppo presto.

Arrivò, ce parlò, je disse tutto;

e quann’ebbe finito, er re todesco

dice che j’arispose asciutto asciutto:

Pio Sesto mio, vatte a ffà fotte, e damme…”

Allora er papa che conobbe er fresco

Ritornò co’ la coda tra le gamme.

 

A maggior ragione la critica e l’esortazione salfiana, acquistano forza nell’ottica di una visione consapevole delle dinamiche di pensiero e delle circostanze che si andavano generando nella coscienza della visione giusnaturalistica e dei diritti umani già peraltro affermatisi nel nuovo mondo con la rivoluzione americana.

Il tono di saggio rimprovero e di esortazione a cambiare registro ed a conformarsi allo spirito dei tempi continua lungo tutta l’allocuzione ed è invito costante all’adozione di princìpi non solo consoni all’insegnamento evangelico, ma consapevoli dei diritti dei Sovrani e dei popoli. «La Corte di Roma non si è sostenuta, né si sostiene che laddove si fa poggiare sulla forza della religione. Riconcetriamoci dunque in essa, come al nostro più pronto asilo, richiamando la povertà e la umiliazione più edificante degli Apostoli.»

Il cardinale beneventano ignoto conclude con le seguenti parole: «In ogni caso io credo aver pienamente adempito gli offici della mia incorrotta fede, usando quella libertà, che è figlia del vero zelo.»

Come dicevamo il pamphlet contiene anche la risposta del papa all’allocuzione del cardinale N.N. e, ovviamente, è sempre il Salfi che si trasferisce, questa volta, nelle vesti del pontefice.

A parere di chi scrive i ragionamenti sono sembrati il riflesso di una eco.

Una memoria di parole, di articolate tesi e giudizi, impressa a fuoco nella mente dell’adolescente esposta al rigore delle impalcature logiche e saldamente strutturate delle lezioni nel corso dei suoi studi presso i gesuiti.  

Il tono è tutto giocato su un cinismo irridente che, sotto motivazioni bonariamente nutrite di scetticismo, ha la velleità di voler riportare alla mente e convincere, attingendo forza alle sedimentate arti e strategie del condizionamento psicologico, del raffinato gioco della persuasione attraverso le trappole della fede strumento di potere, fonte di dominio che si puntella sulle superstizioni  attingendo agli oscuri terrori che agitano le menti di fronte all’ignoto e rendono allucinate le sensazioni.

Per intenderci pensiamo un momento alle meravigliose acqueforti che Goya, proprio in quegli anni, produceva. Los Caprichos col loro corredo orrido di esseri deformi e terrifici.

Sentiamo la voce del Salfi nelle vesti del papa: 

«Il vostro linguaggio è stato anche  un tempo quello di alcuni Santi censori dell’ambizione dei nostri predecessori, ma le invettive non han mai prodotto delle rivoluzioni…» ammonisce il romano pontefice che ribadisce il suo obbligo di mantenere, aumentare e perpetuare l’eredità temporale e materiale a lui trasmessa che è anche tattica e strategia fatta di raffinati espedienti utili «al nostro terreno ingrandimento,  non ultimi, un’indefessa pazienza in aspettare le congiunture più propizie, ed una vigilante destrezza per profittarne.»

Si meraviglia, il papa, che il Cardinale abbia obliato i presupposti che rendono lecite le azioni necessarie per mantenere intatta quell’eredità «forse perché il torrente delle massime trionfanti al di là del Garigliano vi ha trascinato, o perché un eccesso di buona fede filosofica vi ha fatto credere già disperata la nostra causa. Quel che voi credete funesti presagi per le nostre intraprese, sono a nostro giudizio, vani fantasmi. Noi siamo in possesso di ben indagare l’indole de’ Principi e di ben proporzionare i mezzi per guadagnarli. Ne sian pruove le investiture date da’ nostri Antecessori, di quel che loro non apparteneva, facendo lor vassalli i Sovrani, in tempi in cui certamente il Pontefice non era Sovrano in nessun luogo, né meno in Roma.»

E rimprovera benevolmente il Cardinale preda dell’oblio e di filosofie errate ribadendo: «A torto vi date a credere che queste arti della nostra politica siano ormai dileguate come un prestigio da’ Lumi troppo universalmente diffusi… Noi non ci stancheremo di adoprare le antiche armi; diffonderem le promesse, profitteremo delle passioni degli uomini, e se occorre, fin de’ fenomeni della natura… sfideremo la resistenza di animi ingenui che la dolce natìa beneficenza rende avversi alle negative ostinate, che il desiderio della tranquillità potrà spingere ad abbracciar il più pacifico partito.»

C’è in queste parole tutta l’amara constatazione, tutto il dolore per un cinismo che priva la fede vera, quella dell’amore e della charitas del messaggio cristiano, di ogni possibilità di essere attuata dal monarca temporale della chiesa cattolica.

E c’è anche tutto l’impianto di pensiero, tutta la filosofia che governa la vita di Salfi, suo malgrado testimone a carico del proprio tempo.

Non a caso ritroviamo spunti che riportano alla memoria quel suo saggio scritto in occasione del devastante terremoto del 1783 ove imputa a cause oggettive il disastro, rigettando i terrorismi psicologici disseminati dal clero pronto a caldeggiare l’idea di punizione divina che, addirittura, sarebbe caduta anche sull’abbazia di San Bruno, a causa del comportamento dei frati.

Sembra, ad un certo punto, che il nostro intuisca, avverta, il terribile presagio dell’esperienza, ancora da venire, del fallimento della repubblica del ’99 il cui crollo fu determinato dalla propaganda sanfedista del Ruffo più che dalle truppe borboniche sorrette dal fanatismo di schiere di contadini inneggianti alla “sagrosanta fede” e bramosi di bottino.

Il popolo che sostiene la propria inconsapevole condanna è simile alle mostruose figure umane che affollano il dipinto “Nous voulons Barabba” di Daumier o alle raccapriccianti maschere della folla che circonda il purissimo Cristo del sacrificio e dell’amore dell’”Entrata di Cristo a Bruxelles” di Ensor.

È massa selvaggia e brutale perché inconsapevole.

Magma difforme che travolge e distrugge perché orfano della ragione che è guida e disciplina di ogni sapere e orientamento nella scelta della fede.

È anche il popolo ingenuo, arruffone, passionale che, nei giorni del crollo della repubblica del ’99, aveva eletto a suo protettore sant’Antonio degradando San Gennaro a ruolo subalterno per punirlo dei supposti sentimenti repubblicani come racconta un saporoso dipinto, conservato nel museo di San Martino raffigurante l’entrata a Napoli delle truppe della “santa fede “di Ruffo su cui si staglia, alquanto boriosetta, la figura del Santo eletto, ad horas, nuovo comandante delle truppe borboniche.

Il povero san Gennaro doveva reputarsi connivente con il nemico avendo osato fare il suo famoso miracolo in presenza dei rappresentanti dello Championnet e dichiarato, perciò, giacobino. 

Concludiamo ponendo l’accento sulla laicità, così come è stata concepita da Salfi e da coloro che si sono battuti e si battono a difesa del libero pensiero.

Essa è gemma della libertà, pietra preziosa da condividere con tutti gli esseri umani, possibilità offerta all’uomo di accedere alla spiritualità e al divino. È bene comune che continuamente si rinnova e si arricchisce con il meglio tratto da ciascuno di noi ed è la grande vittoria dell’uomo, la liberazione dalla prigione dei suoi stessi istinti. La laicità è amore ed è ragione, una filosofia proposta ed un modello sociale suggerito per cancellare l’odio ed ogni forma di esclusione.

  

 

Il  presente scritto è tratto da: G. De Leonardis e G. Laudato Illuministi, giacobini e massoneria nel regno di Napoli con particolare riguardo agli intellettuali di Calabria in «Quaderni di studio sul Mezzogiorno d’Italia».

 



[1] F.S.Salfi, L’Italie au dix-neuviéme siécle, ou de la necessité d’accorder, en Italie le pouvoir avec la liberté, Paris, chez PDoufart, 1821.

[2]E. Bigi, Dal Muratori al Cesarotti, tomo IV: Critici e storici della filosofia e delle arti nel secondo Settecento, Milano-Napoli Ricciardi.

[3] Gregorio Mattei, giureconsulto e letterato, nato a Montepaone da Saverio Mattei, musicista il 3 giugno 1761.  Nel 1799 era a Napoli dove fu parte viva e attiva del governo repubblicano sostituendo Giorgio Pigliacelli in seno all’alta Commissione Militare. Fu tra i redattori ei promotori del Veditore Repubblicano, uno dei moti giornali fioriti nel semestre di vita della Repubblica Partenopea. Dopo la caduta di questa fu processato e impiccato in Piazza Mercato il 28 novembre 1799. Contrastò con forza i facili estremismi contrastando, ad esempio, il radicalismo giacobino di Vincenzo Russo.

[4] B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Laterza, Bari,1966, p.142.

[5] Per far sì che a tutti, anche al popolino incolto, il messaggio per la fertile presa di coscienza, l’esortazione al cambiamento, giungesse in tutta la sua forza, Eleonora scrisse anche in lingua napoletana.

[6] Un cavallo bianco allevato a Bisignano, borgo della provincia cosentina.

 

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